Essere benessere

by Claudia Ravaldi

Le parole “bene” e “benessere”  sono molto utilizzate nella nostra cultura, sia come termini semplici che in locuzioni più articolate.

Digitando su google la parola “bene” questa è indexata in 68.300.000 pagine, mentre “benessere” è presente in 24.800.000 voci. Se combiniamo le parole “benessere” e “salute”  le voci salgono a oltre 30.000.000, a testimoniare la sinergia d’impiego di questi due termini.

Bene e benessere sono utilizzate non solo in modo letterale, come da dizionario, ma in maniera estesa, per rappresentare una vasta gamma di concetti. In molti ambiti, soprattutto nel web, il ricorso a questi due termini è divenuto quasi compulsivo.

La pubblicità e il marketing in generale hanno investito per anni sulle parole “bene” e “benessere” per vendere i prodotti più disparati (dalle diete dimagranti, ai coloranti per capelli, alle pentole), per vendere stili di vita, o per incoraggiare cambiamenti culturali di massa (alimentari, estetici, e più in generale relativi alle scelte del singolo e delle famiglie): le “promesse” pubblicitarie vertono tutte su una soddisfazione immediata dei desideri o dei sensi, o sull’acquisizione, in un futuro non meglio precisato, di un maggiore livello di benessere rispetto a quello attuale.

In sociologia, psicologia, medicina, e in generale in tutte le professioni che si occupano di persone e di cura la ricerca del benessere e del bene si è allargata dal campo dei “malati” o dei “sofferenti”, alle fasce di popolazione definite “deboli” o a “rischio”, alla popolazione generale: assistiamo oggi ad una ossessiva offerta di cure, rimedi, prevenzioni, sempre allo scopo di un non meglio precisato benessere, che non è più solo sollievo da un precedente problema o ricerca di uno specifico benessere individuale e collettivo realmente integrato e rispettoso del limite, ma contemporaneamente scopo e mezzo.

Si offre il “benessere” come mezzo per raggiungere un benessere sempre più stereotipato, generalizzato, mercificato, lontano dall’esperienza personale dei singoli, ma anche dagli scopi e dai mezzi personali che ciascuno intimamente possiede.

E’ benessere la cura per lo stress (e stendo un velo pietoso sul cattivo uso di stress, e sul discredito che una reazione psicofisica così importante dell’uomo ha subito in questi anni di banalizzazione) è benessere il rimedio (fatto di consigli e condizionamenti non richiesti) alla neogenitorialità per mamme e papà in (ovvia e verosimile) difficoltà nel passaggio di ruolo, è benessere l’antidoto alla menopausa e all’andropausa, al taglio cesareo come alle situazioni lavorative estreme.

Utilizziamo bene e benessere per riferirci a obiettivi vari in situazioni o fasi della vita assai diverse tra loro, per definire il nostro mondo esperienziale (questo mi ha fatto bene, questo non mi ha fatto bene) e gli eventi che ci capitano.

Bene e benessere sono utilizzati come meta verso la quale tendere dal punto di vista economico, sanitario, psicologico ed esistenziale (la mia vita ha senso compiuto solo se raggiungo il benessere propostomi dall’esterno): il termine benessere, nato come baluardo per affermare e difendere i nostri bisogni primari di esseri umani, è oggi triste e sfilacciato vessillo di tutti i bisogni in generale, delle aspirazioni, dei facili rimedi, dei must have e dei must be culturali.

Come spesso accade alle parole usate per definire l’essere umano e i suoi mondi esperienziali ed esistenziali, alcune parole nate per definire uno specifico concetto nel tempo hanno fagocitato altri concetti e sfumature, fino ad essere impiegate  in modo  generalizzato e traslato (come i termini depressione, paranoia, stress, bisogno, empatia e via discorrendo ). Questo cattivo uso delle parole ha una serie di effetti a medio e lungo termine: banalizzate nel loro reale significato, le parole divengono un vuoto simulacro, un contenitore capiente, dove possiamo mettere tutto e il suo contrario, dove scopi e mezzi si confondono, e dove il valore del vissuto personale e delle proprie aspirazioni si perde in un “così fan tutti” senza capo né coda.

Relativamente al concetto di benessere, fulcro da sempre di studi filosofici, antropologici, psicologici e politici, siamo ormai giunti al massimo livello di confusione e di strumentalizzazione.

Se applichiamo questa confusione concettuale e verbale/semantica a quelle fasi della vita di per sè ad alto rischio di confusione e frammentazione, come l’adolescenza, la gravidanza e il post-partum, la genitorialità, il disagio psicologico, il rischio di equivoci e complicazioni si alza pericolosamente, con buona pace di tutti coloro che ogni giorno lavorano per offrire alle persone un punto di vista colto, realistico e non “stereotipato” sulla loro esperienza esistenziale.

Cosa dovrebbe essere il “benessere” tanto declamato, promesso e promosso urbi et orbi?

Il dizionario on line del corriere della sera propone questa definizione:

1 Stato di buona salute fisica e psichica, felicità: senso di b. interiore

2 Prosperità economica, agiatezza: vivere in condizioni di b. || società del b., quella occidentale, caratterizzata da agiatezza collettiva e un elevato reddito pro capite

ponendoci di fronte ad un’ambiguità concettuale non di poco conto.

E’ benessere ciò che sentiamo e proviene da dentro di noi, è benessere il funzionamento del nostro corpo, ma è anche benessere la prosperità economica (che andrebbe meglio definita come ben-avere, più che come ben-essere, per evitare di incorrere nell’errore concettuale “più cose ho e meglio mi sento / starò bene quando mi sarò laureato, avrò il posto fisso, avrò la casa, mi sposerò, perderò tre chili etc”, e nell’altro terribile errore culturale che recita: “ma come fa a stare male se ha tutto, che non gli manca nulla?”).

Wikipedia invece, dice in modo più esteso e completo: “Il benessere (da ben – essere = “stare bene” o “esistere bene”) è uno stato che coinvolge tutti gli aspetti dell’essere umano, e caratterizza la qualità della vita di ogni singola persona. (…)

Comunemente il benessere viene percepito come una condizione di armonia tra uomo e ambiente, risultato di un processo di adattamento a molteplici fattori che incidono sullo stile di vita.

Anche nel rapporto della Commissione Salute dell’Osservatorio europeo su sistemi e politiche per la salute[1] (a cui partecipa il distaccamento europeo dell’OMS) è stata proposta definizione di benessere come “lo stato emotivo, mentale, fisico, sociale e spirituale di ben-essere che consente alle persone di raggiungere e mantenere il loro potenziale personale nella società”.

Può il concetto di benessere essere oggettivabile, ed applicabile così come è a tutte le persone e a tutte le esperienze? Può essere acquisito dall’esterno, quando dipende in gran parte da fattori personali legati al proprio sviluppo e alla propria personalità, ma anche dall’ambiente specifico in cui viviamo?

Si può definire il benessere  la semplice sommatoria di fisico, psichico, sociale e spirituale, quando ognuno degli addendi può influenzare in modo direttamente o inversamente proporzionale gli altri?

Possiamo attenderci il benessere dall’esterno, come un moderno, appagante e permanente seno materno, senza una parte consistente di ricerca personale progressiva, e senza l’acquisizione dinamica e continuativa, attraverso le nostre esperienze (e quindi attraverso fasi critiche e di squilibrio) di nuove fasi di benessere, adattive a tutti questi parametri, per raggiungere il tanto auspicato e sbandierato equilibrio dinamico?

Infine, soprattutto per chi svolge una professione di cura o per chi lavora nella scuola: posso io decretare il benessere dell’altro parametrandolo al mio concetto personale di benessere, a sua volta costituito non solo dalle mie conoscenze, ma in parte maggiore dalle mie esperienze e dalle mie credenze in merito?

Cosa faccio io quotidianamente per poter “essere bene”  (non fare bene, o avere bene, o stare bene, o ricevere bene)?

In che percentuale attribuisco il mio benessere a fonti esterne da me?

“Noi abbiamo familiarità esclusivamente con la felicità e l’infelicità legate all’ego. Abbiamo perduto la capacità di godere della gioia naturale, appagante, stabile, che è parte integrante del nostro essere.
Conoscendo unicamente tale tipo di pseudo-felicità – una sorta di euforia, di eccitazione passeggera – l’uomo non può far altro che tentare di procurarsene in misura sempre maggiore. Ma questa felicità, oltre ad essere soltanto un sottoprodotto della vera gioia, è anche unita indissolubilmente al dolore: se la tua gioia dipende dall’approvazione degli altri, la loro disapprovazione ti renderà triste: sarai semplicemente un inerme burattino di cui gli altri tireranno i fili.
La chiave risiede nel rinunciare deliberatamente a tale genere di felicità legata all’ego per ritrovare, attraverso una profonda comprensione, la gioia che ci appartiene per diritto di nascita, quella indipendente dal giudizio altrui, e da cui soltanto la mancanza di consapevolezza ci separa.”
Osho
 
“Avendo così pochi bisogni che meno non si potrebbe, sono vicinissimo agli dei.”
Socrate

Rispondere a queste poche domande, tenendo presente l’impatto del giudizio, degli apprendimenti e dei condizionamenti culturali e del falso concetto di benessere è condizione essenziale per compiere ogni scelta importante del nostro percorso evolutivo in piena consapevolezza, e dunque contribuire a quell’equilibrio dinamico che è l’essere bene.

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