La negazione dell’abuso

by Claudia Ravaldi

Non era solo la mia realtà ad essere cancellata, ma era la mia percezione della realtà che veniva sovrascritta… non erano le esplosioni più rumorose e più spaventose a causare il maggior danno. 
Non era la violenza fisica o l’abuso verbale o la mancanza di limiti e comportamenti inappropriati. 
Quello che ha causato il vero danno è stata la negazione, l’affermazione che questi incidenti non erano mai avvenuti come raccontavo io… la cancellazione dell’abuso è stata peggiore dell’abuso. Ariel Leve

Le parole di questa giornalista sono le stesse parole delle donne non credute che ho incontrato durante tutti questi anni nella stanza della psicoterapia o nei gruppi di ascolto e di autoaiuto di CiaoLapo.

La cancellazione dell’abuso è una grave traumatizzazione secondaria e può essere ancora più traumatica dell’abuso stesso, per una serie di ragioni:

1) va a minare il senso di fiducia in se stessi (sarò io esagerata/sbagliata/troppo sensibile troppo qualunque cosa?);
2) va a minare il senso di fiducia nell’altro (nessuno mi può capire fino in fondo, inutile cercare ancora aiuto; e anche: tutti gli operatori/ i professori/ i mariti/ i datori di lavoro sono così, meglio fare / essere da soli, non posso pensare che vada meglio di così);
3) va a minare il senso di aderenza al piano della realtà (forse non è andata così, mi ricordo male/ ho capito male/ ho interpretato male);
4) va a minare il senso di comprensione del mondo (che è alieno e alienante, divenuto estraneo e non più noto, e dunque potenzialmente minaccioso),
5) va a minare il senso di autoefficacia (avrei dovuto: dire, fare, superare, reagire, lasciare, denunciare: non l’ho fatto, quindi sono una che non sa stare al mondo).

La cancellazione dell’abuso “sposta” l’attenzione della vittima su altro dal trauma primario, già di per sè grave e potenzialmente invalidante e in quanto tale meritevole di doverosa attenzione e di energia.

La vittima mette in secondo piano il trauma primario e resta imbrigliata nella “negazione dell’evento“: questo può depotenziare le personali risorse e capacità di resilienza, che scompaiono ingoiate dalla negazione.

Questo è il motivo per cui con matermundi e CiaoLapo lavoro da anni sull’ascolto dei vissuti, sulla percezione della cura (intesa ad ampio raggio come cura parentale, cura tra partner, cura nella rete amicale e cura in ambito scolastico e sanitario) e ho sviluppato nel tempo specifici progetti di educazione alla comunicazione e relazione d’aiuto per gli operatori di area perinatale e per le scuole (ComuniCare).

Scuola e sanità sono infatti due ambiti di primaria importanza nella gestione delle situazioni di abuso verbale, psicologico o fisico che sia: chi lavora in questi due settori può veramente fare la differenza ed essere di reale sostegno alle vittime.
Talvolta chi lavora in scuola e sanità, spesso senza nemmeno rendersene del tutto conto può arrivare a perpetrare i traumi, mettendo in atto la cancellazione dell’abuso di cui parla Ariel Leve.

Sono centinaia le storie di abuso (spesso verbale, assai frequentemente psicologico, più raramente fisico) che ho ascoltato.
Tutte erano accompagnate dalla negazione o dalla minimizzazione degli abusi stessi, da parte di tutti: familiari, amici, istituzioni, enti, abusatori in primis.

Dopo tutte queste storie ascoltate e spesso riportate con precisione non solo dalle donne ma anche dai loro compagni e talvolta da alcuni operatori presenti al momento dell’abuso con le donne, abbiamo iniziato ad esplorare il fenomeno dell’abuso e mancanza di rispetto nel parto nel mondo del lutto perinatale e poi nel mondo della “fisiologia”.

Mi hanno colpito due cose:
* la frequenza degli abusi (verbali e psicologici) e delle omissioni;
* la ferma negazione o minimizzazione di quanto emerso (cancellazione dell’abuso) da parte di “terzi“, ossia persone non direttamente coinvolte nell’abuso e non presenti agli abusi, che hanno reagito sminuendoli, negandoli, attaccando le donne e talvolta i ricercatori coinvolti, come se fossero impossibilitati a stare di fronte al dolore denunciato dalle testimonianze.

Nel mondo, l’abuso e mancanza di rispetto nel parto è un tema caro a chi promuove la salute intesa come benessere psichico, fisico e sociale perchè riguarda le donne e i neonati e quindi si riflette sulle famiglie e quindi sulle società.
È uno dei tanti temi legati alla promozione della salute e dei diritti umani che con pochi accorgimenti, per esempio la cura della relazione sanitario – utente e la cura della comunicazione potrebbe essere arginato, con buona soddisfazione di tutti (utenti e erogatori di cura).

Per arginare questo fenomeno bisognerebbe però compiere un primo grande passo: riconoscere che nelle relazioni, anche in quelle di cura, si possono compiere abusi od omissioni, anche senza volerlo
Anche senza saperlo: a volte quelle che noi chiamiamo prassi, perchè così magari ci è stato insegnato, vengono vissute come abusi, come da definizione OMS e non solo. L’abuso verbale, a questo proposito, è un abuso a tutti gli effetti: tutti dovrebbero tener conto di ciò che dicono e degli effetti che la parola detta ha su chi la riceve.

L’abuso e mancanza di rispetto nel parto è d’altro canto soltanto la punta di un gigantesco iceberg di abusi, omissioni, violenze verbali, psicologiche o fisiche. 
Scandalizza forse di più, l‘abuso/omissione al momento del parto, come d’altro canto scandalizza l’abuso/omissione nel momento della morte, perchè sono i due eventi che sanciscono la mortalità dell’uomo, la sua mancanza di controllo sulle origini e sulla fine, e la sua interdipendenza. 
Eppure, proprio perchè la fine e l’inizio sono così intrisi di mistero e di significati, ecco che sono due momenti che si stampano nella memoria dei testimoni: i testimoni della nascita, le madri, i padri, gli operatori coinvolti, i testimoni della morte, parenti, operatori che siano.

In tutto questo mistero, a tratti angoscioso e pieno di vuoti, vorremmo semplicemente essere accolti. 
Vorremmo essere accompagnati, almeno per la parte che si può percorrere insieme.

Se non con il corpo, con le parole. Se non con le parole, quando non ci sono o non si trovano, con lo sguardo. Con la presenza.

Ecco allora che, in questi due momenti, e ancora di più quando i due momenti coincidono nel lutto perinatale, il trauma è di tale portata che ogni violazione, ogni abuso, ogni omissione si radicano in questo confine, tra vita e morte, tra appartenenza e abbandono. E lì rimangono, nonostante i più svariati tentativi di negazione dell’abuso. Anno dopo anno.

Di abusi e mancanze di rispetto è costellata la nostra vita sociale tra inizio e fine: son così tanti e così ripetuti che alcuni abusi perpetrati nella nostra società, una, due, dieci, cento volte, finiscono per sembrare normali. Soprattutto quelli verbali. Soprattutto quelli psicologici. Talvolta, anche quelli fisici. Soprattutto sui bambini o sulle donne. Di nuovo.

L’iceberg diventa parte dell’arredamento sociale.

E chi ne rimane schiacciato? 
Chi va in giro cercando aiuto perchè ha un iceberg piantato sul petto che non lo fa respirare?
Avviene, spesso, un drammatico rovesciamento: 
abusare è norma, chi ha subito l’abuso e va cercando tutela, sostegno e aiuto diviene l’anormale, quello “strano”, quello “esagerato”, quello che “non sa che c’è di peggio e si lamenta del nulla”.

Abbiamo decisamente molto da rivedere come operatori e come cittadini nel nostro stile relazionale. 
e in ciò che vogliamo passare alle nuove generazioni.
Potremmo ascoltare di più e smettere di sminuire il dolore degli altri. 
Potrebbe davvero essere un inizio.
Tessere trame di cura e non orditi di filo spinato.
Per esempio.

#lapuntadelliceberg

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